AMARI, Scimmie d’amore (Riotmaker / Warner, 2007)

Sei a letto. Appena tornato dopo una serata: c’era una band sul palco, hai ballato, hai “schivato alberi e pali” tornando a casa. Prima di dormire, prendi il libretto di un disco colorato, ne leggi i testi e non vedi l’ora che sia il giorno dopo per ascoltare. Eppure, il giorno dopo, la frenesia diventa una delusione lieve.

Perché “Scimmie d’amore” sarebbe molto più interessante se fosse letto, piuttosto che ascoltato. Qualcuno ha scritto che i testi degli Amari sembrano presi da un blog, e mi sembra il miglior complimento possibile per “Scimmie d’amore”: trovi piccole verità tra quelle parole che parlano di odiosi rituali collettivi, di amici persi nella nebbia, di imbarazzi da innamorato (gli anni ’80 alla ribalta di “Arpegginlove”) e di piccole liti (la scanzonata irritabilità di “Ice albergo”), delle nostalgie che circondano i trent’anni.

Ma poi l’ascolto le tradisce, e le trasforma in canzoni dalla direzione incerta. Pop? Non esattamente. Hip-hop? Quasi per nulla, solo in un cantato che finisce per essere stentato piuttosto che efficace.

Electro? Ecco, qui ci siamo già di più: al passo coi tempi (il tormentone “Le gite fuori porta” non esisterebbe senza i dischi Ed Banger), il suono digitale degli Amari mira alla canzone, come potrebbe fare Booka Shade se solo volesse raccontare i suoi dubbiosi trent’anni.

Purtroppo, però, si resta soddisfatti a metà, e “Scimmie d’amore” assomiglia ad un elastico che, tirato in troppe direzioni diverse, finisce per appiattirsi mogio nel suo stato di quiete.

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