MUM, Go Go Smear The Poison Ivy (FatCat, 2007)

Come ripetono spesso i Sigur Ròs con un orgoglio piuttosto autoironico, in Islanda gli artisti passano molto tempo in studio perché c’è poco altro da fare. Ebbene anche i Mùm non sembrano avere poi tanto da fare lassù. E così sono passati tre anni, con la fine definitiva del sodalizio con le due gemelle immortalate dai Belle & Sebastian nella copertina di “Fold Your Hands Child, You Walk Like A Peasant” , per l’addio di Kristìn Anna Valtýsdòttir che ha preferito avventurarsi in un coraggioso progetto col marito Avey Tare degli Animal Collective, per un nuovo episodio della band che meglio ha saputo rappresentare l’Islanda con Björk, i Gus Gus e i sopra citati connazionali. Disco atteso e temuto, dopo i primi segnali di cedimento avvertiti nel deludente “Summer Make Good” – seguito dell’ottimo “Yesterday Was Dramatic, But Today Is Ok” e del capolavoro “Finally We Are No One” famoso per essere stato concepito nella clausura di un faro – che risentiva non poco della “fuga” dell’altra gemella Gyda.

Non cambia troppo la formula in questo “Go Go Smear The Poison Ivy” anche perché arriva con Mr.Silla un’altra voce femminile, quella della duttile violoncellista Hildur Gudnadottir, nel tentativo di non deturpare la levità vocale dei Mùm. Tentativo ambizioso, non del tutto riuscito, ma tornare indietro sarebbe stato drammatico, per usare un termine a loro caro. I reduci della diaspora, i co-fondatori Gunnar Örn Tynes e Örvar Þóreyjarson Smárason, decidono infatti di guardare oltre. Senza grandi sconvolgimenti, forse. Nessuna rinuncia a quella peculiare sinergia tra un’impostazione classico-accademica negli arrangiamenti (alla quale contribuiscono svariati collaboratori dai nomi altrettanto impronunciabili con fiati, archi, percussioni, tastiere e chissà cos’altro) e il fascino per un’elettronica minimalista, convulsa e rarefatta.

E’ esemplare il dialogo che apre il disco tra archi e la singhiozzante base dai connotati fortemente glitch, altra loro suggestione, su cui si adagiano le voci in “Blessed Brambles” prima dell’incursione dei fiati o la giocosa “They Made Frogs Smoke ‘Til They Exploded” che ricorda certe intuizioni sperimentali di Björk. La vena melodica e la cura dei suoni non manca, né si cade in momenti stucchevoli come nel precedente album. Ciò che manca, semmai, è il filo conduttore tra un brano e l’altro, quella continuità tra atmosfere più che tra sonorità che rendeva l’ascolto di un album dei Mùm un viaggio della mente, fuori da ogni confine spazio-temporali. Così si passa da momenti electro che sembrano venuti fuori dal Giappone più che dall’Islanda con la voce svampita della Gudnadottir che si insinua tra moog e coloratissimi impasti sonori , “These Eyes Are Berries”, a fasi più Mùm tra spigolosi glockenspiel e i classici rumorini incastrati tra un violino e una tromba, “Marmalade Fires” a fughe, “Dancing Behind My Eyelids”, che fondono l’effervescenza di Caribou alle progressioni dei Lali Puna. E’ un’altalena emotiva, un continuo sbalzo d’umore tra cieli tersi, “School Song Misfortune”, e nuvole, nella funerea “I Was Her Horse” in cui ci si allontana del tutto dalle suggestioni classiche. Salvo riavvicinarvisi nel cupo vintage-pop per pianoforte alla Air di “Moon Pulse” e nell’avvolgente “A Little Bit, Sometimes” con quell’organetto narrativo e quei fiati incastonati tra la voce implorante e un beat torbido. L’effetto, per rendere l’idea è quello di un remix alla loro maniera di Yann Tiersen. Formula che si ripete nella cinematografica “Guilty Rocks”, apice e summa di questo quarto album della band di Reykjavik.

L’inverno (ciò che non siamo mai stati dopotutto), ammettono piuttosto esplicitamente nell’inquietante accompagnamento da piece teatrale che chiude l’album, “Winter (What We Never Were After All)”, in cui danno un saggio di quei panorami desolati ed eterei che sapevano disegnare con esiti irripetibili.

Non resta che convincersi di avere un’altra band davanti, insomma.

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