MARLENE KUNTZ, Uno (Virgin, 2007)

“Non c’è arte senza infelicità”, scrive Marco Bosonetto nel breve racconto (divertentissimo) associato a “Negli Abissi Fra I Palpiti”, all’interno del booklet di “Uno”.

E’ vero? Non interessa la risposta, è una provocazione. Uno stimolo. Però riposa lì, a parere di chi scrive, una delle possibili chiavi di lettura di “Uno”. I Marlene virano decisamente su spazi per loro incontaminati con il loro album più difficile, volano sopra tutti i nostri miasmi pestiferi con una leggerezza rassicurante ma allo stesso tempo bieca. Difficile per chi li ha seguiti fino ad ora, difficile per chi deve approcciarsi vergine alla loro musica densa e magmatica che non si lascia mai scoprire subito neanche quando, come adesso, si semplifica.

A tratti paiono decisamente sollevati, le (due) note di piano di Paolo Conte in “Musa” hanno una dolcezza mai raggiunta, alle volte tornano sul luogo del delitto con storie torve e crescendi a loro abituali come in “111”. Insomma, lasciano confusi.

La disomogeneità è innanzitutto il difetto più lampante di “Uno”: imbracciano la chitarra acustica ma non nasce un album acustico, usano un minimo di elettronica ma l’elettronica non incide mai, abbandonano i loro proverbiali intrecci tra chitarre elettriche senza aver abbracciato nessun’altra soluzione sonora stilisticamente definita (definitiva?). Sono liberi in quello che fanno, potrà dire qualcuno.

Può essere, ma pur sfoggiando un’indubitabile classe di melodie leggiadre sembrano comunque un po’ in imbarazzo nell’introdursi in un mondo, quello della musica leggera italiana, che non hanno mai abitato. Sono lontani i tempi di “Senza Peso”, quando gli Emkey affidarono la produzione artistica ad una firma internazionale come quella congiunta di Rob Ellis e Head per cercare di arrivare (e chi più di loro se lo meritava?) ad un pubblico non italiano. E’ lo stesso Cristiano Godano quello che fa ascoltare a Nick Cave le trasposizioni in inglese dei suoi testi per capire, direttamente dal suo Vate, se funzionino e quello di adesso la cui unica prospettiva è la Penisola, il canto italiano (ascoltarsi “Canto”), Paolo Conte? Eppure era solo quattro anni fa, non si sta mettendo a confronto i Marlene di adesso con quelli di “Catartica”.

Dio ce ne scampi, meglio cambiare neh e i Marlene hanno sempre dimostrato di saperlo fare, e bene. Ma questa volta navigano forse in una prospettiva musicale scomoda (limitata?) in cui probabilmente sono stati ingabbiati dalla stessa tremenda forza delle liriche di Godano, di una bellezza ineguagliata e inarrivabile per qualsiasi altro artista italiano.

Musicalmente ci sono almeno un paio di momenti spaventosamente commoventi, da groppo in gola, in cui chi scrive ha riconosciuto una scintilla davvero riservata a pochissimi (i ritornelli de “La Ballata Dell’Ignavo” e di “Uno”), quella potenza sconvolgente e intensa che emozionalmente solo i Marlene sanno dare. Poi ci sono tante canzoni gradevoli (“Canzone Ecologica”, “Abbracciami”, “Negli Abissi Fra I Palpiti”), alcune leziose (“Stato d’Animo”), che filtrano quelle emozioni forse perché Cristiano è davvero più saggio e vuole lasciarsi alle spalle i tormenti ancora presenti in “Bianco Sporco”, o forse semplicemente perché così è. Così vanno le cose e così devono andare. Però verrebbe da dire che il problema non è che i Marlene non sono più infelici, il problema è che non sono ancora (del tutto) felici.

“Uno” sarà uno splendido album presentato a teatro, in una situazione colta, pulita, distaccata. L’unico pericolo vero di adesso dei M.K. è “solo” quello che lanciava, monito per tutti, Roger Waters: di diventare pian piano, senza accorgersene, comfortably numb. E’ una prospettiva che a me spaventa terribilmente, quella di diventare piacevolmente insensibile.

“Non c’è arte senza infelicità”? No. Io credo piuttosto che non ci sia arte senza intensità.

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