ARCHITECTURE IN HELSINKI, Places Like This (Moshi Moshi / V2, 2007)

Due anni fa, all’epoca di “In case we die”, per gli Architecture In Helsinki il massimo della confusione poteva essere un luna park, e le urla lanciate dall’ottovolante su cui si mostravano nel video di “Do The Whirlwind”. Ora, di quei ragazzi timidi e divertiti, non è rimasto grachè: “Places like this” esplode di ritmo, come un palloncino pieno di inchiostro che scoppia in faccia. Come la città frenetica e brulicante di mille vite ritratta in copertina, o come quella Brooklyn in cui il leader della band, Cameron Bird, si è trasferito, facendosi travolgere dall’energia della città (il mito è duro a morire) che non dorme mai.

L’istinto per la melodia è rimasto intatto, ma “Places like this” è estroverso ed energico come un bambino capriccioso: già dai primi secondi di “Red turned white” si viene catapultati tra sirene, percussioni e tastiere caciarone, come un incrocio caotico e divertentissimo tra un videogame e un luna park.

Magari è riduttivo pensare alla gioia di questa musica come all’espressione di musicisti che vogliono rimanere bambini, ma è proprio all’infanzia che torna spesso alla mente, quando si ascolta “Places like this”: in “Hold music” i mocciosi improvvisano cantilene hip-hop su cui irrompe una festa di fiati, mentre in “Like it or not” (splendido numero di pop bandistico alla Benni Hemm Hemm) sembra di ascoltare gli stessi poppanti alle prese con le prove delle carole di Natale.

E sì, magari non si ha voglia di stare tutto il giorno tra bambini sbraitanti, ma i ritmi vocali e le esposioni di gioia della fantastica “Heart it races”, gli echi del reggaeton che Cameron ascoltava dalle strade di Brooklyn (“Debbie”) e le piccole pause meditative (quella filastrocca da cui gocciolano stille di battiti sintetici chiamata “Underwater”) fanno di “Places like this” una boccata d’aria fresca.

E gli Architecture In Helsinki prendono molto seriamente il loro compito di creare vibrazioni felici. Sono adulti cresciuti tenendo bene a mente quella same old innocence a cui dedicano l’ultima canzone del disco: un punk sintetico che si dissolve in ronzii e tocchi di pianoforte, come se i genitori fossero venuti a interrompere la festa, riportando i bambini a casa e lasciando nella stanza solo il ricordo di quel caos bellissimo e festoso.

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