OKKERVIL RIVER, The Stage Names (Jagjaguwar / Wide, 2007)

Ci sono certi dischi che, per loro natura, vanno lasciati decantare. Sarebbe sbagliato scriverne di getto solo per arrivare primi, quando magari tutti l’hanno scaricato e nessuno riesce più a goderselo il giorno dell’uscita. Non è una giustificazione, questa. Solo che ognuno ha i suoi tempi e la musica deve seguirli, senza dimenticare il dovere di cronaca, ovviamente. Ma non è la cosa più importante. La cosa più importante è che due anni dopo “Black Sheep Boy”, il disco con cui gli Okkervil River si imponevano all’attenzione di tutti quelli che avevano orecchie e cuore per intendere, nuove canzoni scalderanno gli inverni. E nonostante delle prime – ingiustificate – paure, si tratta di canzoni bellissime.

“The Stage Names”, quindi. Nove nuove canzoni dalla penna di quello scrittore camuffato da indie-scemo di Will Sheff. Lui è l’unico, assieme a gente come Sufjan Stevens e Colin Meloy, a potersi permettere questa dimensione letteraria. Una penna che incide, scalfisce e colpisce. Non solo canzonette. Per questo c’è la scena indie. Ci sono gli Architecture in Helsinki. Ci sono badilate e badilate di gruppi di merda. No grazie, qui passiamo oltre. Passiamo alla musica che si muove nella scia di una tradizione ben consolidata, la ammoderna con alcune trovate come possono essere la band allargata, i toni sopra le righe, la melanconia torrenziale e ne rende omaggio nel migliore dei modi. Non solo indie-rock. Sarebbe riduttivo. Diamine! Per una volta che una band si dimostra decente, non generalizziamo buttandola nel calderone, perché c’è gente che poi magari ci crede e si perde un disco meraviglioso. Un disco nato dall’insicurezza e dalla passione per il macabro. Dal masochismo e dalla catarsi. Dalla voglia di riscattarsi ma anche di farsi compatire, di poter dire: “Guarda! Capitano tutte a me!”. Un torrente di emozioni che scava la dura roccia della saccente cocciutaggine di chi “ne sa” e fa capire che quando uno sa scrivere le canzoni, non ci sono ragionamenti che tengano.

E sulle prime uno può restarci anche un po’ male. Dei pezzi rock. Rock. Con la batteria pestona e le chitarre distorte. Più Neil Young che Neutral Milk Hotel. Gli Okkervil River felici? Chiaro che poi basta fare attenzione ai testi e tutto cambia. Tutto cambia come le canzoni, che dopo il trittico iniziale “Our Life Is Not A Movie…”, “Unless It’s Kicks” e “A Hand To Take…” tornato nelle lande della desolazione, delle canzoni al chiaro di luna di chi guarda alle stelle maledicendo il destino. E intanto sei già ammaliato. Pensi che non sia all’altezza di “Black Sheep Boy” o “Down The River Of Golden Dreams” – nonostante in rete qualche mentecatto abbia osato tanto – ma che ci sono quel paio di canzoni maledettamente grandi da farti girare la testa. E di dare un senso ad un disco e farlo diventare qualcosa di più che la solita cartella mp3 tirata giù da e-mule. Chiaro che i due dischi precedenti erano belli tutti, ma non è sempre domenica, bisogna anche sapersi accontentare. Se no, ripeto, gli Architecture in Helsinki sono lì che aspettano. Qui la gente discute. Discute e discute mentre “A Girl In Port” prende lentamente possesso della scena per fare piazza pulita, investendo tutto di purissima e malinconica bellezza. Impressionismo in musica. Tramonti di Monet. Un semplice brano che può dare così tanto. Ma con Will Sheff è normale. Ti puoi aspettare di tutti, anche che dopo un album come “Black Sheep Boy” sappia ancora tirare fuori pezzi della madonna a dimostrazione che sì, qui c’è del talento. Il ragazzo non è un coglione. Solo uno che sa quello che fare, del resto, può permettersi di cantare “Sloop John B” dei Beach Boys tanto per chiudere una sua canzone. Noblesse oblige. Chapeau. Han di nuovo vinto loro.

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