CROSBI, All In (Mechanism, 2007)

La proposta musicale di un gruppo come i Crosbi andrebbe apprezzata anche solo per il fatto di essersi scelta come nume tutelare un gruppo tanto dimenticato e sottovalutato quanto decisivo nella storia del rock inglese dell’ultimo quindicennio: i La’s (quelli di “There she goes”, ve li ricordate?). E’ infatti innegabile la somiglianza tra la voce ispida e tagliente di Lee Mavers e quella di Andy James, insieme al fratello Steve alla guida di questo interessante quartetto proveniente da Wrexham, che è già riuscito ad attirare l’attenzione di nomi importanti dello stardom britannico come Inspiral Carpets, Happy Mondays e Steve Lamacq (BBC radio).

Registrato ai Rockfield Studios di Monmouth, in Galles (dove, tra gli altri, hanno preso corpo “What’s The story Moring Glory” degli Oasis e “Bohemien Rhapsody” dei Queen) e prodotto da Phil Ault e Steve Bush (già con gli Sterophonics, altra importante influenza nel suono della band), questo “All in” non finirà certo nelle graduatorie o nei consuntivi di fine anno come miglior album di una band britannica esordiente, ma al tempo stesso risulta innegabile la bontà e la solidità di alcune sue composizioni, soprattutto quelle contenute nella prima parte del lavoro. Una canzone come “Hellayou” sarebbe infatti potuta diventare un tormentone radiofonico contagioso e micidiale, grazie al suo passo strascicato e ad un ritornello di grande intensità emotiva che fa forse venire in mente il lirismo sussurrato e ciondolante di alcuni dei momenti più ispirati di “The Runnaway Found”, il primo disco dei Veils. Altra influenza facilmente avvertibile è quella degli Starsailor, soprattutto nell’atmosfera spesso brumosa e gocciolante che permea il suono dell’album conferendogli quel caratteristico retrogusto inglese che potrebbe fare la gioia di alcuni così come la rabbiosa disperazione di altri…

Pezzi come “Coastline”, “Got and Show Me” o “Sonny” hanno comunque parecchia aria nei polmoni e si inerpicano vivaci e gioiosamente schitarranti su agilissimi intarsi mod che non deluderanno i seguaci del verbo Who (omaggiati con una non propriamente memorabile cover di “Substitute”, facente parte della coda di tre bonus tracks che impreziosiscono l’edizione italiana del disco). Forse si obbietterà che l’album è un po’ troppo omogeneo (in alcuni casi persino piatto) e che il gruppo, vista anche la verde età, non riesca ancora a variegare sufficientemente la gamma di soluzioni melodiche e strutturali a propria disposizione, ricorrendo spesso a trovate un po’ scolastiche e prevedibili. Ma tra un ammiccamento ai Suede ( “She got Soul”) e un altro ai James (“Someway”), i Crosbi riescono comunque a confezionare un prodotto dignitoso capace di divertire, pur rimanendo all’interno dei rassicuranti confini di una gloriosa tradizione e di un canone estetico e concettuale mai messo davvero in discussione. La speranza è che dopo quello che la stesso gruppo considera una sorta di rituale di attraversamento delle proprie intime radici musicali, i Crosbi riescano infine a mettere a punto una voce del tutto autonoma e riconoscibile, che sappia spingersi oltre il semplice esercizio di ammirazione. La materia prima non manca.

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