KELLY JONES, Only The Names Have Been Changed (Virgin, 2007)

A un certo punto della sua vita, Kelly Jones ha fatto una scelta: dedicarsi alla musica e lasciare da parte le ambizioni da sceneggiatore. Ma in realtà il giovane gallese continuava a scrivere storie, a inventar personaggi e a rielaborare la realtà che lo circondava, condendo il tutto con accordi semplici e un’ugola d’oro. Quelle storie si chiamavano “More Life In A Tramp’s Vest” o “Looks Like Chaplin” e possiamo leggerle senza fatica su “Word Gets Around” o il grande successo “Performance And Cocktails”.
Da lì, pur con risultati alterni, Jones ha continuato ad osservare le persone, a prendere appunti e spunti fra un concerto e l’altro. Note che fanno da cornice ai suoi testi nei booklet di ogni uscita a nome Stereophonics e che tradiscono la sua vera natura da cantastorie.

Così “Only The Names Have Been Changed”, sua prima uscita solista, con la sua programmaticità non può che sembrare qualcosa nell’aria già da tempo.
Ogni canzone infatti è una storia: la storia di una donna che si paga il taxi con il proprio corpo (“Katie”), o di una prostituta assassinata (“Violet”); la storia di un’infermiera che salva bambini (“Rosie”) o di un tragico rapporto di coppia (“Emily”); fino a giungere alla pace rilassante, distesi su un prato con “Summer”.
Le dieci donne di Kelly Jones non sono altro che degli abbozzi, registrati nel giro di due giorni con voce, chitarra e ben pochi orpelli, che se in alcuni casi vivono del pathos vibrante delle sue corde vocali anche in un formato così essenziale (la già citata “Katie” o “Jayne” tipica ballata alla Stereophonics), in altri sanno di incompiuto e di superfluo (“Misty”).

Ma forse proprio per questo sembra la sua opera più onesta da qualche tempo a questa parte.
Sarà il fatto che il disco è da tempo disponibile liberamente via internet. Sarà che non c’è apertamente nessun intento commerciale (cioè nessun singolo efficace). Sarà che, nonostante si tratti di un prodotto inevitabilmente destinato ai soli appassionati (in Italia ce ne sono a parte me?), questo microscopico disco è dotato, se non di quella vera originalità che il menestrello gallese neanche cerca, almeno di naturalezza e sincerità d’intenti. E di una certa intensa ispirazione che fortunatamente lo riscatta dalla dimenticabile prova di “Language, Sex, Violence, Other?”.

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