PERE UBU, Why I Hate Women (Smog Veil, 2006)

Solitamente quando si scrive una recensione è un’operazione di comodo quella di celebrare l’illustre passato di band decennali per riempire inutili righe di presentazione. Nel caso dei Pere Ubu, quest’operazione ci sta tutta. Perché, a differenza di molte altre band coeve che alla fine dei Settanta cambiarono volto al rock, la multiforme creatura plasmata a propria immagine e somiglianza da quell’inquietante e delirante genio che risponde al nome di David Thomas, non gode di sufficiente gloria e di sufficienti citazioni. Quindi è doveroso fare uno strappo alla regola sottolineando una volta per tutte la loro importanza. Come se non bastassero trent’anni di carriera e un disco epocale, inspiegabilmente trascurato da troppi, quel “The Modern Dance” che in un anno fondamentale, il 1977, riuscì nell’impresa di riunire sotto lo stesso tetto la rabbia e il nichilismo garage-punk e inguaribili aspirazioni tra art-rock e pura avanguardia. Chiaramente nel segno della new-wave. Ora nel 2006, dopo quattro anni di digiuno, tornano sulla scena, con un album dal titolo che magari, almeno questo, rimbalzerà negli occhi di chi, misogino o meno, frustrato o meno, entrerà in un negozio di dischi con poche idee in testa. “Why I hate women”.

Le impietose frustate della secca batteria di Steve Mehlman sono il fulmine d’apertura che apre la strada alla straziata voce lamentosa e nasale dell’imponente frontman. Lambite dalle acidità dell’immancabile theremin in un giro di basso da punk seminale. “Two girls (one bar)” è l’apertura perfetta. Ciò che colpisce è la presenza delle chitarre. Non bistrattate, quanto torturate. E non a caso è assunto in pianta stabile il fedele chitarrista Keith Moliné (dei Two Pale Boys di Thomas). Le straripanti “Flames over Nebraska” e “Caroleen”, al di là degli arrangiamenti sempre spigolosi e dei pirotecnici vortici sintetici, ha un giro che sembra venir fuori dagli Husker Du. Oppure in “Texas overture” in cui Thomas assume un approccio blues, in chiave assolutamente personale, ossia fraseggi instabili, turbini di effetti, virtuosistici cambi di tempo, altalene di accelerazioni e dilatazioni. Tocca poi ai feedback oltre che al perfido theremin allontanare senza mezzi termini il “rischio” di avvicinarsi alla forma-canzone.

A riprova che lo sguardo è sempre e comunque rivolto al futuro, nella continua ricerca di sonorità inconsuete, di nuove deviazioni e assimilazioni difficilmente riconducibili a una fonte o a un’influenza. Per capire i Pere Ubu bisogna convincersi di questo paradosso. Se si guarda al passato, si guarda solo al proprio, di passato. Come dimostra il rigurgito garage di “Boyfriend’s back” e la schizofrenia no-wave di “Mona”, tre deliranti minuti di proiezione in musica di scompensi mentali assimilabili a stadi di nevrosi. Dalla nevrosi alla paranoia più autentica si arriva alla liquida, sbilenca “Babylonian warehouses”, senz’altro uno dei pezzi meglio riusciti. Insieme alla canzone d’amore del disco (non confidate troppo nel titolo), “Love song” che sfocia sommessa disperata, quanto inaspettata da un riff Rock (con la erre rigorosamente maiuscola) per poi lasciare spazio a fantasmagorici intermezzi noise con il povero Robert Wheeler che riesce a resistere alla tentazione di calcare troppo la mano con i suoi effetti sabbatici.

Il theremin è una loro prerogativa, si sa, ma il rischio di abusarne è sempre evidente. Ed è questo che rende “Blue velvet” e “Synth farm”, che hanno tutta l’aria di essere nate da vere e proprie jam session, un po’ dure da digerire per gli ascoltatori meno integralisti. Alla fine poco importa e poco incide, dinanzi a un disco superiore alla media delle recenti uscite. Se i Pere Ubu hanno un difetto, è solo quello di essere stati (s)fortunamente sempre troppo avanti rispetto alla musica del loro tempo. E’ una situazione di disagio che ha evidentemente, oltre ai pro, i suoi contro. Ma sappiamo bene che l’inimitabile compositore di Cleveland nel disagio ci sguazza e ci è sempre sguazzato fino a renderlo una rassicurante dimensione esistenziale oltre che una decisiva fonte d’ispirazione. Contento lui, contenti noi.

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