FRIDA HYVONEN, Until Death Comes (Secretly Canadian / Wide, 2006)

Disarmante. É disarmante scoprire come un disco tanto semplice possa colpire con violenza. E non è questione di volumi: quasi tutte le canzoni, qui, sono accompagnate da un pianoforte con cui le dita di Frida giocherellano, in totale assenza di virtuosismi e con la sacra triade delle cantuatrici al pianoforte (Joni Mitchell, Carole King e Laura Nyro) ben visibile davanti a sé in ogni momento.

Dieci canzoni brevi, bozzetti da cameretta, pagine strappate di diario cantate sul pianoforte verticale del salotto, quando non c’è nessuno in casa: musicalmente c’è ben poco da dire, non c’è altro, e ti viene quasi da chiederti cosa ci sia di tanto speciale in questa cantante svedese, messa sotto contratto per la propria etichetta dai misconosciuti genietti pop Concretes e portata in palmo di mano da Jens Lekman; poi, però, presti attenzione ai testi, ed è a quel punto che capisci.

Inizi a sentire che Frida usa le proprie canzoni come terapia, ma non in modo violento: lascia fluire confessioni terribili (l’anoressia atroce e poetica di “Straight thin line”, o quella “Once I was a serene teenage child” in bilico tra racconto di uno stupro o del primo amore) accanto a semplici racconti (la cattura immediata dell’uptempo di “I drive my friend”) con l’identica naturalezza, come se non potesse fare altro che raccontare e distaccarsi dalle sue stesse frasi.

E dietro a quelle parole si nasconde o una ragazza piena di fantasmi, o una grandissima narratrice. Quando riuscirà a essere altrettanto coinvolgende dal punto di vista musicale (la sentita “Today, tuesday” e il movimentato soul di “Come another night” potrebbero essere un buon inizio), allora Frida Hyvönen potrà guardare negli occhi senza vergogna le più grandi.

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