RYAN ADAMS, 29 (Lost Highway / Universal, 2006)

Certamente non mi stupisco. Ryan Adams è sempre stato uno che pubblicava dischi con il metodo Catena di Montaggio. Quello che piuttosto può stupire è la qualità media delle sue opere. Nonostante le questioni di gusto, il ragazzo di Jacksonville è certamente uno dei nuovi pesi massimi, per lo meno nell’ambito del rock americano tradizionale e dischi come “Cold Roses”, “Heartbraker” e “Gold” sono lì a dimostrarlo. Nessuno ha saputo coniare Neil Young, Bob Dylan e Gram Parsons infondendo alla musica roots una nuova linfa vitale grazie ad una personalità che, volenti o nolenti, non lascia indifferente. Sono sempre stato affascinato da questi artisti iper-prolifici. Ma andando a memoria, negli ultimi dieci anni Ryan Adams è stato l’unico che ha imposto un ritmo di uscite così elevato in un ambiente dai tempi dilatati come può essere il mainstream.

Per quanto riguarda “29” Ryan Adams ne ha fatta un’altra delle sue, proponendo una canzone d’autore ispirata e mediamente di livello altissimo. Orfano dei Cardinals che lo hanno accompagnato in “Cold Roses” e “Jacksonville”, Adams si spinge nei territori cari già affrontati in passato con introspettive ballate non prive di una certa ombra scura (“The Sadness”) e di un certa malinconia (“Elizabeth…”). E’ un disco che si muove sui toni pacati del folk, proponendo un uniforme canzoniere che di certo non cambierà l’idea della gente su Ryan Adams. I detrattori non lo ameranno e viceversa. Scelta di comodo? Anche se fosse, non vedo dove sia il problema. In un disco di canzoni d’autore bastano, appunto, le canzoni. Qui il livello è alto e come fiocco rosso una “Night Birds” da perderci il cuore. L’arrogante bastardo l’ha fatta di nuovo. E in tutta onestà vorrei non smettesse mai.

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