Clap Your Hands Say Yeah,Transilvania, Milano, 22 febbraio 2006

L’ultima fiaba dell’indie rock ai tempi della Rete (o già penultima?) sbarca in Italia. Esiste ormai una letteratura su come i Clap Your Hands Say Yeah si siano autoprodotti, autopromossi e autodistribuiti attraverso il loro sito web e il tam tam dei blogger, facendo vendere migliaia di copie al loro eponimo album d’esordio senza avere nemmeno un contratto discografico, in barba alle logiche vetuste delle major e del mercato discografico, bla bla bla. Se aggiungiamo che l’album è stato salutato come un mezzo capolavoro da buona parte della stampa specializzata, che ha scomodato nomi ingombranti come Talking Heads e Yo La Tengo, è naturale che si voglia verificare con il ditino se, sotto gli strati di hype elettronico, di vero miracolo si tratti.

Con questa intenzione mi metto in macchina in una sera grigia e piovosa dell’inverno padano, e a causa della mia annosa ostilità con la pianta stradale milanese mi perdo i Dr. Dog in apertura: quando entro il locale è moderatamente affollato, mentre gli altoparlanti mandano Dylan a manetta, “Mr. Tambourine Man” e compagnia bella. Alle 22 i CYHSY arrivano sul basso palco del Transilvania, con il frontman Alec Ounsworth che ha la faccia (e i capelli) di uno che si è alzato al massimo da cinque minuti: attaccano con “Let The Cool Goddess Rust Away”, che scivola via un po’ pigra, assonnata come gli occhi di Alec il quale, come da copione, canta in modo ancora più slabbrato, strascicato e lamentoso che su album.

Con andatura diesel il gruppo entra in fase al terzo-quarto brano, con “The Skin Of My Yellow Country Teeth” prima, ormai una hit da discoteca rock che non manca di esaltare il pubblico, e poi con la emozionante “Details Of The War”: quando girano a regime, i CYHSY appaiono come una classica garage band, cinque ragazzotti che si divertono a scambiarsi gli strumenti, a giocare con sintentizzatori ed effetti, a restare piegati per minuti sugli amplificatori alla ricerca del feedback perfetto, il tutto in un clima rilassato, da jam permanente. Hanno ben poco delle geometrie ossessive e schizoidi dei Talking Heads; del resto Ounsworth, chitarra, armonica e sguardo a fessura, chiaramente ha come modello non tanto David Byrne quanto il vecchio Dylan che ci facevano ascoltare a luci accese. Tutto ok comunque, i brani migliori dell’album scorrono morbidi, da “This Home On Ice” a “Over And Over Again”: Alec introduce le canzoni bofonchiando parole indistinguibili, mentre Robbie Guertin ringrazia caloroso e sorridente, nonostante la sua espressione abbia un che di truce che mi ricorda il ragazzino col banjo di “Un tranquillo weekend di paura”.

Eppure con quel nome, “battete le mani e dite yeah”, mi aspettavo uno show più coinvolgente, magari anche più sgangherato, con quel pizzico di istrionismo alla Tom Waits che in studio si sentiva e insaporiva non poco la ricetta. Invece i cinque evitano perfino di eseguire “Clap Your Hands!”, quel folle coro per megafono organetto e battimani… Sarà che il loro nume tutelare, il sito Pitchfork, lo ha dichiarato uno dei brani peggiori dell’anno, nonostante le sperticate lodi alla band?

La mia sensazione è amplificata nel finale: puntuale arriva “Upon This Tidal Wave Of Young Blood”, e finalmente, penso, possiamo cantare tutti insieme “young blood, young blood” per mezz’ora di fila a squarciagola… e invece finisce mezza strozzata, cioè Alec è mezzo strozzato, e il brano rischia di essere quasi più corto che su album. Saluti, timide richieste di bis da parte del pubblico, ma le luci sono già accese e hanno già riattaccato con la retrospettiva dylaniana. Lo ammetto, non è facile per una giovane band doversi confrontare con lo spettro del “caso” mediatico che le viene cucito addosso, ma mentre mi rimetto in auto sento un “YOUNG BLOOOOOD” in gola che non va né giù né su…