BOARDS OF CANADA, The Campfire Headphase (Warp / Self, 2005)

Lo diciamo subito? Lo diciamo subito. Se “The Campfire Headphase” ha un difetto, e neanche questo è certo, è solo la mancanza di imprevedibilità. Ecco, fatto. Ci si è tolti il peso di identificare l’unico possibile neo del nuovo album del duo elettronico scozzese, ora tutto il resto può essere analizzato con il cuore sgombro di patemi. Non ci si può sempre aspettare mezze rivoluzioni da chi ne ha già fatte… che le facciano gli altri! E poi, a ben vedere, i Boards Of Canada in questo “The Campfire Headphase” hanno comunque operato un grosso, marcato cambiamento: l’uso delle chitarre, non esasperato o invadente ma grandemente di riferimento. Non è un’apertura inattesa o innaturale (è in linea con l’attuale trend di alcune produzioni elettroniche che cercano di umanizzarsi) ma è comunque una scelta non di poco conto. Una piccola evoluzione.

Per questa via alcuni pezzi assumono un climax un po’ post-rock alla Mogwai (“Satellite Anthem Icarus”, “Hey Saturday Sun”), le visioni sonore diventano più luminose e colorate (“Chromakey Dreamcoat”) e le chitarre – in questo caso sgranate – aiutano alcune magnifiche aperture, come ad esempio quella al minuto 2:06 di “Dayvan Cowboy”. Dopo 60’’, 60’’ e poi 6’’… Ma non ci interessano quelle alchimie algebriche da apprendisti stregoni che il mondo intero si era affannato a ricercare, dopo le allusorie dichiarazioni degli stessi B.O.C., in “Geogaddi” (che dura 66’06 e che rippato nell’hard disk ha una dimensione di 666 megabyte). Probabilmente i due fratelli continuano a giocarci, ma quello che conta è la musica. O, meglio, i suoni.
Suoni acquatici (“Sherbet Head”), suoni di rifrangenze (“Oscar See Through Red Eye”), suoni di nebbia (“Farewell Fire”). Non è vero che “The Campfire Headphase” è poco scuro: la prima parte del cd è sì una rappresentazione diurna, ma come di un lago ghiacciato: paesaggio comunque asfittico e indefinito. Poi nella seconda parte cala la notte anche sul lago ghiacciato (“Slow This Bird Down”) e c’è solo una luna crescente ad illuminare il tutto.

Una differenza importante da rimarcare rispetto al penultimo lavoro è che, mentre “Geogaddi” è un disco che ha bisogno – per essere goduto appieno – di essere ascoltato tutto d’un fiato, con le sue pause, le sue ripartenze, “The Campfire Headphase” può essere assunto facilmente anche con canzoni singole. E’ più fruibile, più commerciale potrebbero dire alcuni: per noi è semplicemente più accessibile. Perché a volte non hai un’intera ora per immergerti completamente in un disco, e vorresti poterne godere anche di piccoli pezzi. Quasi tutte le canzoni dell’ultimo dei “canadesi”, infatti, vanno al dunque e contengono in esse tutta l’atmosfera dell’opera, mentre le congiunzioni sonore sono ridotte al minimo (“A Moment Of Clarity” e “Ataronchronon”).

Volete il brivido dell’imprevisto? Non cercatelo qui. Volete qualcosa che renda l’inverno ancora più imponente e spaziale come una distesa innevata? Ecco, allora ci siamo.

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