COLDPLAY, X & Y (EMI / Capitol, 2005)

Ormai si è già detto e scritto tutto su “X & Y”, l’album più atteso dell’anno nel mondo mainstream che – in quanto tale – è stato ascoltato, sezionato, valutato da più e più parti immediatamente all’uscita, con la grande ingordigia di riascoltare un prodotto da nuovi U2 o Police, gente che metteva d’accordo pubblico e critica. O meglio – dal punto di vista dei discografici – con l’impazienza di rifarsi le tasche piene con le uniche, attuali galline dalle uova d’oro del pop. E solo il fatto che lo slittamento dell’uscita di qualche mese dell’album abbia causato perdite alla quotazione del titolo della Emi in Borsa lo sta ad attestare.

Non è male dunque recensire “X & Y” adesso, a mente fredda, senza orpelli a latere, per considerarlo compiutamente nel suo essere e solamente per la musica e per quello che trasmette. Premessa d’obbligo: i Coldplay sono riusciti nell’ardua impresa di riconfermarsi nell’Olimpo, e qualcuno potrà anche dire che hanno fatto un cicinino di più di “A Rush Of Blood To The Head”, che era già un album consapevole dei propri mezzi. Gli passiamo un cicinino, però, non troppo. La scrittura di Chris Martin rimane difatti su ottimi livelli, mentre gli arrangiamenti continuano ad essere funzionali con qualche tocco di diversivo: il charleston totalmente kraut di “Square One”, il soffio caldo d’organo di “Fix you”, i cucchiai-campanule che emergono dopo il primo ritornello in “Low”, piccoli esempi di come in “X & Y” non sempre ci si imbatte in ciò che ci si poteva aspettare dai quattro bravi ragazzi londinesi. Non una fotocopia del precedente cd, insomma.

La strada maestra è quella che i Coldplay si sono dati anche a parole, sbandierandolo in ogni intervista: l’essere i nuovi U2. Quelli di “The Unforgettable Fire”, aggiungeremmo noi. Ogni pezzo è infatti infarcito di suoni strutturati di synth celestiali che, al primo ascolto, potrebbero rimandare alla pomposità di certe orchestrazioni della title-track dell’album di Bono & soci dell’84, ma ad andare più in profondità lì i Coldplay compiono il loro primo, vero, inesorabile errore. O Brian Eno (che collabora a questo album) aveva una diversa classe negli anni Ottanta o si è rincitrullito o ci ha messo solo il nome, fatto sta che tutto ciò che metteva in più agli irlandesi era qualcosa di cui si sentiva davvero il bisogno, mentre i Coldplay (o gli altri produttori Danton Supple e Ken Nelson) imbottiscono tutto con questi suoni che sembrano usciti dai peggiori Pink Floyd di “A Momentary Lapse Of Reason” e lo fanno anche quando non ce ne sarebbe l’esigenza. Per questa via i Coldplay si trasformano in quello che non sono: epici, mentre in realtà sono molto più confidenziali. E quel che è peggio è che diventano pomposi con indolenza, perdendo del tutto quell’essenzialità che contraddistingueva invece “Parachutes” (la riprendono solo nella parte iniziale di “A Message”: sentite come si gode quell’intro intima che poi – purtroppo – viene risucchiata nel solito vortice gonfio e tronfio). Non è dato di sapere se tutta questa enfasi sia farina del sacco dei Coldplay stessi (che nei concerti si riappropriano un po’ di se stessi e di sonorità leggermente più lineari), o se – più probabilmente – di chi gravita attorno al gruppo, di chi vuole che il prodotto Coldplay sia insomma infarcito di tanta panna montata come una torta che si presenti bene. Tutti sanno però che la panna montata, seppure buona, in massicce dosi copre i sapori e non li fa distinguere.

E’ un peccato, perché le canzoni sono belle, sono decisamente belle. “Low” sembra uscita dalla migliore new-wave degli Echo & The Bunnymen, un incedere deciso e dritto con i classici due colpi di cassa ogni battuta a far da binari di un treno che trasporta la mente, gli iniziali fraseggi trasversali di “X & Y” avrebbero potuto essere opera di Thom Yorke, “White Shadows” viene sostenuta da un riff tanto semplice quanto azzeccato. Tutto funziona alla perfezione come una macchina oliata a dovere, con l’eccezione di qualche concessione al sentimentalismo (“The Hardest Part”) e del folk scontato della ghost-track “Til Kingdom Come” (che era stata scritta per Johnny Cash ma che – per fortuna – lui non ha fatto in tempo a cantare, essendo stucchevolmente Cash senza un briciolo di pathos; ma alla fin fine è una hidden-track e quindi si potrebbe dire che tanto è solo un bonus).

Fin qui il critico che vuole essere obiettivo. Da qui in poi chi scrive deve ammettere di averlo ascoltato molto questo “X & Y”, e di avere in certi periodi anche anelato per ascoltarlo quando non lo si aveva a portata di mano. Evidentemente si è di quelli che poi, davanti a cotanto ben di dio, non si sanno trattenere e fanno indigestione di una torta con tanta panna montata. Per cui: “X & Y” è un cd da avere/sentire, se non altro per capire l’evoluzione del pop inglese e perché le melodie si canticchiano volentieri e senza nessuna remora. Finché c’è la sostanza la forma tronfia si può sopportare. Non vorremmo però che nel prossimo futuro rimanga solamente la seconda: di panna montata ne abbiamo mangiata abbastanza.

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