BLACK MOUNTAIN, Black Mountain (Jagjaguwar, 2005)

Dietro i Black Mountain si nascondono i visi e le menti dei Pink Mountaintops, e questo dovrebbe delineare con una certa precisione le direttrici sonore della band: rincorsa affannosa verso la conquista dell’alchimia musicale degli anni ’70, quindi acidità di chitarra, bassi corposi (ovvero la base di un brano come “Druganaut”, sospeso viaggio ipnotico e catartico), improvvisi svolazzi funk, riffs Hard Rock violenti e volutamente pacchiani.

Eppure, mentre nell’esperienza dei Pink Mountaintops si notava come tratto distintivo la voglia di ovattare il tutto, di fatto snaturandone l’afflato emotivo e riconducendo tutto a una cella d’isolamento, camera insonorizzata nascosta su chissà quale astronave in rotta di collisione con la terra, qui la musica a cavallo tra la fine degli anni ’60 e la metà degli anni ’70 rivive in tutta la sua forza ed efficacia. Ascoltare le otto tracce di questo lavoro omonimo equivale a leggersi un bignami di storia della musica del periodo: tra indiavolate espressioni elettriche degne dei Black Sabbath o dei Led Zeppelin, ballate in vena di waterismi e chitarre à la Gilmour, rock drogato figlio di Mick Jagger e degli Stones pre-“Black and Blue”, ectoplasmi vagamente krauti e accenni dell’epilessia metropolitana dei Velvet Underground – questi due elementi comunque molto meno presenti rispetto al lavoro dei Pink Mountaintops – l’ascoltatore si trova sballottato a destra e a manca, in un continuo cambio di pelle e di identità da parte dei musicisti che comporta allo stesso tempo il senso e il limite del disco.

Se appare indiscutibile la classe di Matthew Camirand, Stephen McBean, Jeremy Schmidt, Amber Webber e Joshua Wells, capaci con una precisione certosina di aprire inaspettati squarci cosmici e di gettarsi in orge strumentali sudaticce e rabbiosamente sfrenate, appare altrettanto chiara la mancanza di una struttura determinata e determinante all’interno del progetto. Perché a cosa può realmente servire una riscrittura acritica del già fatto? Resta il piacere puro dell’ascolto (brani come “No Hits” e “Faulty Times” meritano un accenno a parte), ma il tutto appare francamente poco comunicativo e il cervello corre il rischio di patire un immobilismo totale. Il bello vuoto.

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