MATT SWEENEY AND BONNIE ‘PRINCE’ BILLY, Superwolf (Domino, 2005)

L’incontro tra uno dei più prolifici – e qualitativamente costanti – cantautori della nuova (nuova?) scena americana e uno dei chitarristi più eclettici e ‘storti’ dell’underground non poteva che essere un successo. Forse per merito dell’omertà critica indie o forse per merito del timore reverenziale verso due nomi del genere accostati assieme in un lavoro per la Domino (che è tra le quattro o cinque label indipendenti più importanti del pianeta terra), ma che il risultato fosse addirittura così estremamente magnifico, questo non era previsto.

Maledetto Will Oldham! Proprio lui verso il quale abbiamo sempre provato sì un sentito rispetto, ma mai oltre la soglia della stima professionale verso un artista cui non ti sei interessato più di tanto perché soppiantato dal ‘duro’ di turno (che ne so, un Mark Lanegan). E maledetto anche Matt Sweeney! L’avevamo lasciato in quel pentolone zeppo di ribollita pastella andata a male chiamata Zwan e chi si immaginava una resurrezione in grande stile con uno dei dischi più emozionanti degli ultimi tempi?

Ecco cos’è “Superwolf”: emozione. La stessa emozione che si prova nell’attimo di incertezza in cui si smette di respirare e la vita sembra sospesa da qualche parte in una dimensione inspiegabile. La stessa che ti attanaglia nel buio e ti fa salire l’angoscia e la paura. La stessa che ti inquieta con la sua straziante onestà e nella sua bellissima e maledetta poetica. Un disco pervaso da un indeterminato nonsocosa che te lo fa amare, supera ogni barriera di genere e, come un pugno in pancia, si fa notare in tutta la sua viscerale potenza. Una potenza sussurrata che ti suggerisce le emozioni e te le genera con disarmante facilità.

Che sia un crescendo di organo hammond (“Rudy Foolish”) o un’esplosione elettrica da cui non puoi e non vuoi salvarti (“Goat and Roam”, una di quelle canzoni che possono potenzialmente dare senso ad un’esistenza), “Superwolf” ti tradisce continuamente per farsi poi ritrovare bello come non mai. Innocente e perverso, malato e salvatore, catartico e nichilista, contraddittorio e rassicurante. Una musica dal profilo basso che lavora per sottrazione – gli strumenti mai fuori misura e sempre quadratamente in funzione delle parole e delle emozioni – e riesce nell’intento di creare suggestivi panorami che, nella loro epicità un po’ anacronistica, danno un senso di pace e insieme spiazzano, ma è uno di quei paradossi che ti senti di abbracciare come un fratello e a cui vorresti confidarti. E questo disco è forse la risposta migliore che poteva arrivare.

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