THE PINK MOUNTAINTOPS, The Pink Mountaintops (Jagjaguwar, 2004)

Se dovessi essere costretto a trovare una qualifica specifica per la musica sprigionata dall’esordio dei Pink Mountaintops direi che si tratta di un album indolente. Il termine non è da ricercare nel dipanarsi delle trame sonore, quanto nel vero e proprio mood in cui questi ragazzi sembrano completamente immersi. L’ascolto del primo brano nel quale ci si imbatte, “Bad Boogie Ballin’”, dovrebbe essere di suo sufficientemente esplicativo.

E’ come se l’intero lavoro fosse stato registrato e poi passato al rallentatore: la struttura sonora, apparentemente dinamitarda ed esplosiva, mantiene solo a tratti l’urgenza che ci si aspetterebbe. Le voci, robuste e ben intrecciate, sembrano provenire direttamente da Marte. Risulta effettivamente arduo delineare con totale chiarezza la sensazione lasciata da queste otto tracce, ma l’ascolto sembra realmente provenire da un mondo diverso, distante, che a noi ha destinato solo una lontana eco. Perché su Marte questi ragazzi devono essere veramente considerati dei pazzi scatenati, degli scalmanati, ma noi che siamo chiusi dietro la stanza imbottita non possiamo far altro che cercare di carpire quel poco che ci è concesso. Detto ciò è innegabile che ci si trovi improvvisamente davanti a uno dei lavori più belli di questo duemila e quattro, capace di riportare alla mente tanto l’ossessionato stridore metropolitano dei Velvet Underground più scheletrici quanto il rock’n’roll primordiale – nella ricerca riuscita di fusione tra chitarre acide e paranoia dettata da sostanze psicotrope -.

In “I (Fuck) Mountains” si fa largo un fluire psichedelico come cappa avvolgente alla ricerca del cosmo, subito riagganciata al suolo dalla voce disperante e impossibilitata a pacificarsi, il blues-rock sporco e sempre sul punto di esplodere è il germe che infetta l’irresistibile “Can You Do That Dance?”. Ma gli anni ’60 sono materia per libri di storia oramai, e la contemporaneità bussa con sempre maggiore veemenza alla porta, cosicché il combo si lancia in una “Sweet ‘69” bruciata e robotica, dominata da una base ritmica tribale e da chitarre iperdistorte. In sottofondo, mentre l’universo rumoristico sta prendendo nettamente il sopravvento, cerca voce e parola anche un’armonica spettrale, forse ultima ancora di salvataggio da un naufragio sonoro inarrestabile. Tra classiche ballate che sembrano provenire da un oltretomba dolente (“Lesile”) e follie musical-teatrali che sembrano voler ricongiungere Lou Reed al David Bowie più intimista passando per un ibrido tra un Kurt Weill spogliato di qualsivoglia orpello e un Robert Johnson meno rauco (“Rock’n’Roll Fantasy”) l’album va verso la sua naturale conclusione.

E quando già si è pronti ad applaudire a scena aperta questo piccolo misconosciuto gioiello – che rischia purtroppo di passare in secondo piano rispetto a uscite ben più vitaminizzate e pubblicizzate – si è costretti anche a togliersi il cappello. Sì, perché i Pink Mountaintops decidono di abbandonare l’uditorio con una cover frastagliata e frastornante di “Atmosphere” dei Joy Division; e niente poteva essere più azzeccato. Perché laddove la band di Ian Curtis fu tra le prime a comprendere il bisogno di portare alla luce i punti d’ombra che circondano e avvolgono l’uomo moderno, i Pink Mountaintops hanno deciso, coraggiosamente, di portare in ombra tutti i punti fermi della “luce del rock”. Producendo un effetto straniante, pari a quello di un albero che cade nel bel mezzo di una foresta. Diceva il saggio “ma se un albero cade e nessuno sente il tonfo, l’albero è veramente caduto?”. Preferisco non perdermi in inutili disquisizioni filosofiche, ma sono contento che della grande quercia abbattutasi a noi sia arrivata questa straordinaria, strascicata eco.

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