THE JUNIPER BAND, Time For Flowers (Suiteside, 2004)

A due anni di distanza dal loro esordio sulla lunga distanza con “Secrets of Summer” la Juniper Band torna a far sentire la propria voce. Il quintetto, sempre affidato alle cure al mixer di David Lenci, dimostra di voler portare avanti il discorso intrapreso sia nell’album precedente che nell’EP “…of Debris and Daylong Dreams”: una musica fluida, pronta a dipanarsi su trame intricate. L’approccio strumentale si sta facendo via via sempre più dominante, anche se i punti di riferimento esterni non sembrano essere minimamente cambiati.

“Cold Bodies” in questo è un incipit fin troppo chiaro: gli strumenti si sovrappongono andando a creare un magma sonoro corposo e compatto, mentre la voce si fa esile, sottile come una fetta di pane (anche se i gorgheggi rimandano ancora a un’idea non dissimile dalle scelte vocali del giovane Thom Yorke all’epoca di “The Bends” e “Ok Computer”). Quando tutto sembra chiaro e prestabilito, quasi ovvio nel suo incedere, la musica impazzisce in un gorgo di ossessioni ritmiche, rumori ovattati, feedback più vicini all’indie-rock statunitense che al drama-pop inglese. Convulsioni ritmiche che avvolgono l’ascoltatore, trascinandolo in un mondo tutt’altro che rassicurante – quello echeggiato nella prima tranche del brano -, disumanizzato e rabbioso. Il pianoforte di Alessandro Cavalli ha acquistato in personalità e adesione al progetto rispetto al passato, come dimostra il trascinante incedere di “To the Glow”. Anche qui si fanno largo nel finale rumori angoscianti, scorie di mondi lontani che arrivano a deturpare la forma e forse a renderla più interessante: in se e per sè le architetture sonore della Juniper Band non sembrano infatti essere in grado di evolversi particolarmente rispetto al passato, e questo è un punto sul quale la band dovrebbe lavorare maggiormente.

Eppure negli episodi più sostenuti e ansiogeni (come “Ropes”, “Blue Star” e la splendida “Gemini”) è possibile apprezzare un’urgenza vitale che potrebbe forse ergersi come punto d’arrivo per il futuro prossimo. Perchè il suono della band, oramai cristallizzatosi e facilmente riconoscibile, non finisca per essere pura maniera di se stesso, in una pratica masturbatoria che potrebbe facilmente portare all’autodistruzione e all’annullamento di se stesso. Per adesso ci si può accontentare di un buon lavoro, con molte ottime idee e alcune stanche ripetizioni.

P.S.: In “Bring Your Flowers” è ospitata la voce di Jonathan Clancy dei Settlefish, in “Cult of the Skull” il faluto di Fabio Ferrari. Per dovere di cronaca.

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