NINA NASTASIA, Dogs (Socialist Records, 2000; Touch & Go / Wide, 2004)

C’era un tempo in cui l’aria non si era ancora oscurata, intorno alla testa di Nina Nastasia: un tempo in cui gli animali erano semplici cani, e non scheletri di bestie estinte lanciate in un’inutile fuga come nella copertina dell’ultimo “Run to ruin”. Un tempo, insomma, in cui il suo volto severo, quasi vittoriano, sapeva sorridere.

Cosa sia successo dopo questo “Dogs”, non è dato sapere: le sue canzoni si sono fatte più scheletriche, tese, quasi involute, negandosi una qualsiasi piacevolezza. La ristampa del primo disco di Nina Nastasia risuona come una grande sorpresa, e getta un po’ di luce sulla sua musica: una bruma folk leggera, rilassata, una malinconia più dolce.

È soprattutto l’iniziale “Dear Rose” a lasciare senza fiato: l’arpeggio gentile, una voce limpida, parole sussurrate mentre si va via, come un biglietto d’addio abbandonato sul tavolo della colazione. Da lì in poi, l’universo sonoro di queste canzoni si arricchisce di colori e di strumenti: il contrabbasso che sorregge “Oblivion”, gli archi che accompagnano una “Judy’s in the sandbox” che sarebbe piaciuta molto a Suzanne Vega, l’incedere ritmico scanzonato e l’esplosione sottile del ritornello di “Underground”, la straniante “A love song”, memore di Fiona Apple e con parole magnifiche (“Fai uscire il cane dalla collina…vuole leccare la luna…cielo pigro, le tue stelle sembrano stanche…continua a farmi risplendere”), con uno strano vento analogico ad accompagnare la chitarra…

Siamo a metà della corsa, e già pensi che Nina Nastasia fosse una delle voci più talentuose del nuovo folk; poi, però, la musica prende direzioni inattese, forse più influenzata dalla produzione di Steve Albini, e qualcosa si interrompe: una “Smiley” improntata su chitarra e accordion, talmente malinconica che avrebbe potuto cantarla un Pierrot; “Roadkill”, che la fa sembrare una Joni Mitchell sedotta dal noise; gli strappi d’archi un po’ sopra le righe di “Jimmy’s rose tattoo”. Il suono si fa più melodrammatico sul finale, e anche la voce si appesantisce su accenti che non le appartengono, come in “The long walk”.

Correva l’anno 2000, e Nina Nastasia creava il suo disco più bello. Da quel momento in poi, almeno nelle sue canzoni, smetterà di sorridere.

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