R.U.N.I., Ipercapnia in capannone K (Wallace Records, 2003)

Fabio Bielli, Roberto Rizzo, Daniele Malavasi e Alessandro Ruppen, ovvero i R.U.N.I., arrivano al secondo album dopo l’apprezzato esordio su Wallace del 2001 “Il cucchiaio infernale”. All’epoca parlando della band si fece spesso e volentieri riferimento all’elemento “ironia” – termine forse così difficile da definire – rischiando così di perdere di vista la componente musicale.

“Ipercapnia in capannone K” può essere utile proprio per questo, per prendere realmente coscienza della tessitura sonora che i quattro milanesi sono in grado di imbastire e cercare di rimediare ad uno spiacevole vizio di forma che pretende di ragionare a blocchi e semplificare eccessivamente i contrasti (i R.U.N.I. sono stati i musicisti di Bugo? Allora l’equazione deve per forza portare a R.U.N.I.=Bugo).

La varietà di stili è veramente notevole, capace di passare da atmosfere Kraut nell’iniziale “Nove” ad accelerazioni indie-rock in “In autunno fogliamo”, con la voce che si fa urlo distorto e incomprensibile e il ritmo che si spezza in catarsi riflessive, tra riverberi e flussi di coscienza. In “Giardini di Rho (hinterland)” la lirica stralunata entra in contrasto con un ritmo che sembra voler portare avanti una poetica dello piazzamento, tra sobbalzi art-rock e improvvise cavalcate strumentali.

Distorsioni e ossessività accompagnano il cantato monotono che in “Mi ammacco” afferma “La bellezza delle ragazze è nelle mie mani”, in “Il mondo dei trulli è dentro di me!” e “Non mi sei mai piaciuta” si fa largo un funk post-industriale, devastato e attorniato dal rumore, che ricorda da vicino episodi new wave come Gang of Four. Direttamente dallo Studio 54 (con aggiunta di fiati) arriva “Imbocca il down tedesco”, mentre i riverberi elettronici di “Humus aus” portano alla mente le atmosfere tecnocratiche dell’area tedesca.

L’album si chiude sulla frenesia spezzata e rallentata di “L’aria frigge”. Insomma, un piccolo bignami degli ultimi vent’anni di musica, in un album intelligente e che mostra la maturità raggiunta dalla band, il “gruppo pop della Wallace”. Un’ottima occasione per avvicinarsi alla scena indipendente italiana e rendersi conto di quanto forte sia il pregiudizio che la accompagna. Sempre tenendo a mente la lezione di ironia dei R.U.N.I. (che in alcuni momenti ricordano da vicino i Devo), ovvio, ma senza farsi obnubilare da questo. Insomma, sicuramente un album divertente, ma più che altro un album nel quale si percepisce al volo il divertimento di chi l’ha composto. E questo non è veramente una cosa scontata.

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