CREAM, Wheels Of Fire (Polydor, 1968)

Questo disco, pur continuando a pagare un tributo importante al blues, è tradizionalmente riconosciuto come uno dei capisaldi della cosiddetta musica psichedelica ed è forse il più completo, strutturato e curato dell’intera discografia del gruppo.

Il primo lp, in studio, si compone di un pugno di splendide canzoni scritte da Jack Bruce in collaborazione ora con Pete Brown, ora con Mike Taylor, ora con lo stesso Baker, impreziosite dalle cover di “Sitting on top of the world” di Chester Burnett e di “Born under a bad sign” di Booker T.Jones. Si apre con “White room”, trascinata dalla chitarra di Clapton, che insieme al ritmo instabile e sincopato di “Politician” era già uno dei cavalli da battaglia del gruppo durante le esibizioni live.

Ispirazione immaginifica e atmosfere ovattate, chitarra di Clapton “liquida” di wha-wha e chorus per “Passing the time” e l’hit “Those were the days”, uso delle voci che riprende e dilata ciò che nell’album precedente si era interrotto a “World of pain” e “Dance the night away”. Il disco si chiude con l’arrembante “Deserted cities of the heart”, ma l’episodio più fortunato è forse la struggente “As you said”, semplicemente cesellata da Bruce con voce, chitarra acustica e violoncello.

Il secondo lp è un live at the Fillmore, quattro tracce quattro, in cui i Cream dimostrano tutta la loro attitudine da animali da palcoscenico, e comincia con la “Crossroads” di Robert Johnson che diverrà un classico di Clapton durante la sua lunga carriera solista. “Spoonful” è invece una cover di Willie Dixon, dall’immancabile coda completamente improvvisata.

In pratica, le due anime del gruppo a confronto: quella psichedelica e sperimentatrice, che in studio utilizzava il talento di polistrumentista (viola, tromba, organo e tastiere) di Felix Pappalardi, in seguito con Leslie “Mountain” West; e quella rude, più bluesy e immediata dei memorabili show, in cui lo spettacolo era assicurato dal valore assoluto dei tre musicisti.

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