NICO, Desertshore (Reprise, 1970)

Nico è il nome d’arte dietro il quale si cela il volto di Christa Paffgen, tedesca di nascita, francese d’adozione (a Parigi fa la modella nei primi anni ’60) e improvvisamente catapultata in America alla corte del re dei sotterranei, Andy Warhol, che prima la erge a musa ispiratrice per le sue opere di cinema d’avanguardia e poi la inserisce nel progetto musicale che si diverte a sponsorizzare, i Velvet Underground.

Con la band di Lou Reed e John Cale registra il sommo capolavoro “Velvet Underground and Nico”, nel quale regala emozioni intense cantando “Femme Fatale”, “All Tomorrow’s Parties” e “I’ll be Your Mirror”. Lasciato praticamente subito il gruppo, si dedica alla carriera solista. Il suo collaboratore più stretto è John Cale (anche se canta brani scritti da Reed, Jackson Browne e Sterling Morrison); ed è proprio Cale, insieme a Joe Boyd, a produrre l’opera suprema della cantante tedesca.

Nel 1970 esce “Desertshore”: l’animo inquieto e profondamente mitteleuropeo di Nico trova qui la sua sublimazione. La sua voce salmodiante, accompagnata da un harmonium, mentre in sottofondo si muove l’organo stressato e angoscioso di Cale, segna in maniera inconfondibile il brano d’apertura “Janitor of Lunacy”, vertice di straordinario potere messianico, ipnotico, straniante; una discesa nei vortici dell’anima, inarrestabile e consapevole. Fortemente ipnotico anche il seguente brano “The Falconer”, dove il lied cameristico si sposa a lievi rumorismi e l’harmonium disegna trame orientaleggianti, mondi nascosti dietro i veli, mentre improbabile e dolce irrompe l’arpeggio pianistico e l’angoscia sfuma in angeliche rincorse di note.

Un vero e proprio coro ecclesiastico nella splendida e rarefatta “My Only Child”, praticamente eseguita a cappella; raramente la musica contemporanea è stata a così pochi passi dall’imponenza della musica classica. Imponenza che Nico rispetta in tutta la sua dignità, senza scadere nel ghirigoro e nell’autocompiacimento, come faranno altri gruppi del periodo impegnati nella reinvenzione della musica da camera (un nome su tutti, gli Emerson, Lake & Palmer). Un clavicembalo accompagna il delicato canto infantile della breve filastrocca in francese “Le Petit Chevalier”, che anticipa l’incedere angosciante, snervato e ineluttabile di “Abschied”, nel quale il canto di Nico assume un carisma inaspettato, pronto a lottare con le sferzanti note del violino e dell’organo.

Una danza macabra per superomisti disillusi, dimostrazione palese di come l’artista tedesca abbia influenzato il movimento dark che di lì a meno di dieci anni esploderà in tutta la sua tenebrosa passione. Improvvisa arriva la quiete pianistica di “Afraid”, quasi un anello di congiunzione, carezza delicata su questo piano desertico che circonda la nostra anima, e che la cover, tratta dal film “La Cicatrice Interieure” di Philippe Garrel (all’epoca compagno della cantante, alla quale nel 1991 dedicherà quel capolavoro misconosciuto del cinema che è “J’entend plus la guitare”), mostra con chiarezza. Proprio dal film citato è tratto il brano “Mutterlein”, con quei cupi rintocchi di pianoforte e i battiti incessanti, a volte coperti dall’organo, ma sempre lì, sempre presenti, anche nel baccanale finale (un’orchestrazione di rumori di rara efficacia).

A chiudere l’album “All That Is My Own”, nel quale il madrigale medioevale si sposa con l’orientaleggiante insinuarsi dell’harmonium e della viola, con il recitato teso ad annullare ogni emozione – quasi una reminiscenza del pensiero di Ejzenstein e della biomeccanica -, con i rumorismi, il tempo scandito dal gong, i devianti squilli di tromba. Un album severo e passionale, pessimista e orgoglioso, perla luccicante nella carriera della più intelligente cantante rock (ma si può ancora seriamente parlare di rock?) che abbia solcato questa riva desertica che è l’umanità, alcova calda e protettiva e desertica e desolata. Un capolavoro.

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