The Black Heart Procession, La Palma (Roma) (3 dicembre 2002)

Un ossessivo metallofono, dolce e malinconico, funge da anticamera all’ingresso in scena dei Black Heart Procession. Il pubblico è tanto, l’attesa rilassata ma palpabile.

La band di San Diego, capitanata dal duo Pall A. Jenkins (ora diventato Paulo Zappoli) e Tobias Nathaniel, torna in Italia per la tournée di lancio di “Amore del tropico”, il suo ultimo lavoro.

La mia posizione nei loro confronti è difficile da spiegare: sono affascinato dall’idea di vederli dal vivo ma al contempo preoccupato di vederli mutati rispetto a come me li sono sempre immaginati. L’ascolto di “Amore del tropico” non mi ha convinto appieno, con le sue reminiscenze latineggianti e un’atmosfera a volte troppo lontana dal plumbeo alone che attanagliava e sublimava lavori come “2” e “Three”.

Ma fortunatamente dal vivo è tutta un’altra storia; anche i brani da me incriminati dell’ultimo album acquistano verve, profondità, magniloquenza e dolcezza (è il caso di “Tropics of Love” ad esempio), e una ballata come “A Cry for Love” raggiunge picchi di dolcezza inenarrabili.

Le ballate: penso che poche band riescano ad avere un’etica così profonda della ballata. Non a caso spesso i riferimenti culturali che vengono tirati fuori nei loro confronti disegnano i volti di Leonard Cohen, Nick Cave, Tom Waits e Smog. Tutti nomi assai appropriati per dare un’idea di questo gruppo, che tutto sembra nelle sonorità tranne che californiano (terra del sole? Davvero?). Così si stendono ai piedi del pubblico sognanti melodie, dolci ninnananne, malinconiche memorie.

Il repertorio fortunatamente saccheggia a lungo anche il passato, proponendo perle di assoluto valore come “Outside the Glass” e “We Always Knew”, scrigni incantati che avvolgono e difendono dal freddo dell’inverno (tra l’altro a Roma fuori dal locale la pioggia batteva il tempo, nulla di più adatto per creare l’atmosfera). Un moog ininterrotto a suggerire l’ululare del vento, il violino, la steel guitar, l’oramai celebre sega suonata con l’archetto, questa la strumentazione aggiunta alla classica formazione chitarra/basso/batteria/tastiere, oltre ai rumori impazziti della mente di Jenkins, che estrae borbottii, suoni siderali, riverberi. E una voce dolce, esile, sussurrata. Un’ora e mezza tenue come una favola nera, calda, cupa, ma sempre più vicina al cuore.