JOHN PAUL JONES, The Thunderthief (Discipline Global Mobile, 2002)

La storia del rock è costellata di piccoli diamanti, forse non eccessivamente brillanti ed appariscenti, ma certamente preziosi come non mai. La storia di John Paul Jones è quella di un piccolo diamante per anni vissuto all’ombra di due personalità “accecanti” come Jimmy Page e Robert Plant. Chi non si faceva abbagliare, comunque, già conosceva il valore di questo straordinario musicista, versatile polistrumentista, finissimo arrangiatore proveniente da metà dei dischi suonati in Gran Bretagna nella seconda metà degli anni ’60.

Il dirigibile è ormai caduto, e i superstiti oggi devono farsi valere senza poter contare su quella magica alchimia che li rendeva speciali trent’anni fa. C’è chi preferisce riproporre sbiadite versioni di se stesso, e chi tenta di rinnovare il proprio vocabolario musicale. Quest’ultimo caso ovviamente riguarda il nostro John Paul Jones, che a tre anni dal suo ultimo “Zooma”, disco quanto mai eclettico, oggi torna con “The Thunderthief”, un album decisamente ben pensato e ben suonato, in cui spicca l’incredibile versatilità dell’ex Zeppelin.

L’avvicinamento culturale di John Paul Jones alla “corte” di Robert Fripp non è passato certo inosservato. L’influenza del genio crimsoniano (che è anche il padrone dell’etichetta discografica che ha prodotto questo disco) si fa sentire dappertutto, a partire dal brano di apertura, “Leafy Meadows”. Questa traccia, che vede proprio Mr. Fripp alla chitarra solista, con i suoi riff granitici ricorda molto da vicino le ricerche sonore di “Thrak” e “Vroom”. Un omaggio quasi spudorato al “padrone di casa discografica” sembra venire anche da “Hoediddle”, in cui John Paul Jones si cimenta con un chitarra “passata” attraverso quel marchingegno diabolico che porta il nome di “Frippertronics”: loop di chitarra che formano un tappeto sonoro dai risvolti onirici, per poi sfociare in un riff trascinante (e qui verrebbe voglia di nominare i Led Zeppelin, se non fosse per il suono di chitarra piuttosto bruttino; ma neanche Page aveva dei gran suoni…). Il brano si chiude con un’irresistibile cavalcata di mandolini e banjo, ovviamente suonati dal buon Jones.

La title-track rappresenta senza dubbio uno dei momenti più interessanti; riff pesantissimo per nulla scontato, su cui si snoda una linea melodica impazzita cantata dal nostro John Paul Jones; la voce non ha granché di originale, ma il timbro pulito, educato di Jones ha comunque un qualcosa di suadente. La stessa sensazione di soavità la si rivive con “Ice Fishing At Night”, delicata ballata eseguita al piano dallo stesso Jones e cantata con la moderazione di un attore di teatro inglese. Il brano, pur essendo un po’ penalizzato da un testo non esattamente eccezionale (questa e le altre liriche del disco sono state scritte da Jones e da Peter Blegvad), ha un fascino arcaico che, nella breve digressione strumentale sviluppata su un unico pedale, ricorda le atmosfere di “No Quarter”.

Tralasciando la grottesca parentesi di “Angry Angry”, brano punkeggiante decisamente fuori luogo, troviamo ancora buoni spunti con “Shibuya Bop”, cavalcata micidiale, giocata su un riff dal tempo impossibile suonato da un basso con corde buone per una funivia, su cui si intrecciano piccoli spruzzi di strumenti acustici (come il koto) e organi Hammond strascicati.

Alla fine dei conti “The Thunderthief” risulta essere un album abbastanza ostico, ricco di tecnicismi e povero di reali emozioni. Per John Paul Jones rappresenta di sicuro un buon esercizio per mantenere le mani e la mente attive, ma dal bassista dei Led Zeppelin ci aspetteremmo qualcosa di più viscerale e diretto. A frequentare certi tizi come Robert Fripp si prendono cattive abitudini…

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