CORNELIUS, Point (Matador Records, 2002)

D’accordo, non avremo canzoni da fischiettare mentre si passeggia, ma cosa abbiamo avuto in cambio? Fantasia, originalità, intuizioni sparse.

Questo è ciò che ci regala “Point”, il nuovo disco di Cornelius, al secolo Keygo Oyamada. Questo folletto giapponese ha già avuto modo di imporsi nelle sale di registrazione di tutto il mondo come il “Phil Spector dagli occhi a mandorla”; dopo il fulminante debutto di “Fantasma”, Cornelius propone un disco in cui la musica viene trattata come grezzo materiale di produzione da assemblare nelle forme più bizzarre e inconsuete. Per più di 40 minuti ci troviamo trasportati su questa “catena di montaggio sonoro”, dove le melodie vengono ridotte a timidi singulti, dove i suoni, anche i più naturali, assumono un aspetto artificiale e sintetico. Ci verrebbe da parlare di musica seriale, ma non vogliamo scomodare nessuno; va da sé che comunque siamo più vicini a Terry Riley che ai Pearl Jam.

Il disco apre con “Bug (Electric Last Minute)”: quaranta secondi esclusivamente dedicati ad un’unica, solitaria nota di pianoforte e a una chitarra acustica immediatamente deturpati da “rumori bianchi” di vario genere. Purezza del suono e violenza della macchina. Ma il bello arriva con “Point Of View Point”, primo singolo tratto dal disco. Il brano si ripete ciclicamente in micromoduli in cui una chitarra acustica ripete ostinata un unico accordo, le voci si sovrappongono e suoni impercettibili spuntano fuori imprevedibilmente come teste di folletto. Intendiamoci: non si parla di musica elettronica. Qui abbiamo chitarre acustiche, pianoforti, percussioni “in carne ed ossa”, voci naturali. Tuttavia nelle mani di Cornelius tutti questi elementi diventano gli ingredienti per qualcosa di nuovo e irresistibilmente “innaturale”.
In questo senso abbiamo begli esempi come “Drop”, in cui il placido suono dell’acqua viene ingabbiato in un tempo sincopato (onnipresente la chitarra acustica, stoppata per esaltare al massimo l’effetto “funky”), o come “Tone Twilight Zone”, delicato brano ricamato dai rumori di una foresta pluviale, dove piccoli strumenti elettronici imitano la natura, ricreando suoni simili allo sbattere d’ali di un coleottero. Il gioco si ripete con “Bird Watching At Inner Forest”, pseudo-bossanova dove i testi mischiano inglese e giapponese al solo fine di creare sonorità gradevoli.

Ovviamente chi cerca qui le nuove frontiere della New Age dovrà guardare altrove. La cultura musicale di Cornelius attinge linfa vitale dalle fonti più svariate. “I Hate Hate” o “Fly”, ad esempio, affondano le proprie radici nel British Metal anni ’80, producendo uno sproloquio di chitarre superveloci e superdistorte. Fortunatamente si torna a respirare con la rielaborazione della celebre “Brazil”, che perde tutto quel suo carattere di allegria e frenesia per far posto ad una melanconica bossanova cantata da un robot.

Il disco si chiude con i toni distesi di “Nowhere”, con la sua melodia finalmente sviluppata oltre le tre note, avviluppata dallo scroscio dell’acqua marina, per poi implodere in un “pieno” di onde sonore al limite della sopportabilità uditiva.
Senza dubbio ci troviamo di fronte ad un mago. Un mago di suoni, colori, impressioni. Un disco certo non facile, ma sicuramente buono per chi rifugge la maledizione del “già sentito”.

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