MIRO, La Voix Du Vaurien (Sony, 2001)

Tra le piacevolezze che la scena transalpina sta riservando negli ultimi anni, ecco inserirsi l’opera prima di Miro, il quale si merita la chance con una grande major come la Sony grazie ad una lunga gavetta fatta di piccoli locali e di stazioni del metrò parigino. Nato nel ’68 ad Amsterdam da mamma italiana, babbo francese ed avi tunisini, Miro divide la sua gioventù tra Italia, Francia, Nordafrica e Germania, assorbendo in questo modo culture e lingue diverse. Tali peregrinazioni evidentemente forgiano il carattere del ragazzo, che presto lascia casa per una vita autonoma e zingara. Appassionato di musica, egli si improvvisa autodidatta imparando a suonare basso, chitarra e batteria, l’essenziale per divenire un vero one man band.

“La voix du vaurien”, pur essendo un esordio, è la fotografia della maturità di un artista che si è forgiato on the road e che ha sviluppato un’interessante tecnica strumentale, abbinata a composizioni fresche e disincantate, testate più volte davanti all’attenzione del giovane, alla curiosità del turista, alla noia del pendolare in quell’intricato e pulsante mondo sotterraneo che è la rete metropolitana della Ville Lumière.

Miro è affascinato in primis dal funky, e poi da ballate che stanno a metà tra la tradizione francese anni ’70-’80 (Alain Bashung e Alain Souchon) e l’american mainstream. La parte più godibile dell’album è quella dove l’anima nera e sporca, quindi funky, viene fuori. Il brano d’apertura è straordinario nella sua dinamica ritmica, un vero invito in pista: il giro di basso è potentissimo e fisico, l’intermezzo fatto di telefonate di insospettabili funk addicted è molto divertente ed originale. Questa ricerca del right rhythm trova sfogo nella stupenda “Réaction en chaine”, polemica e vagamente lasciva, un pezzo che ricorda molto la tensione del crossover à la Urban Dance Squad. Sul fronte ballads spicca la bellissima “Droit de regard”, un incrocio tra jingle jangle byrdsiano e tipico disincanto marca Jacques Dutronc, probabilmente il vero capolavoro del disco, orecchiabile e pregnante al tempo stesso. Affascinante inoltre l’uptempo con aperture Fender Rhodes molto soul di “TBTC” e l’obliquità stanca de “L’absent”, situata in territori anglofoni, limitrofi a quelli di Kinks e Blur.

L’unico appunto che si può forse muovere a “La voix du vaurien” risiede in una troppo marcata divisione qualitativa, una prima parte (fino alla reprise di “Toutes les filles du monde”) eccelsa che sfuma in un finale non proprio all’altezza del brio e dell’inventiva proposta poco prima: una scelta più accurata della scaletta o meglio, una scrematura più attenta dei brani avrebbe giovato all’impianto globale. Comunque, un disco decisamente sopra la media e soprattutto un artista che sembra conoscere piuttosto bene alcune auree regolette per arrivare alla perfect pop song e, di riflesso, al nostro cuore.

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