THE CURE, Seventeen Seconds (Fiction Records, 1980)

Ad appena un anno dal doppio esordio – “Three Imaginary Boys” e “Boys Don’t Cry” – i Cure tornano alla ribalta presentando il loro terzo lavoro. Ormai il movimento dark è lanciato, continua l’ascesa di Siouxsie and the Banshees, sono nati da poco i Bauhaus e i Sisters of Mercy, il 18 maggio del 1980 si suicida Ian Curtis, cantante dei Joy Division, il gruppo che forse più di tutti ha incarnato l’anima del nuovo sound.

Ad aprile dello stesso anno vede la luce “Seventeen seconds”. Per la prima volta sono presenti le tastiere, suonate da Matthieu Hartley, che si aggiungono a chitarra, basso e batteria. Nuovo anche il bassista, il giovanissimo Simon Gallup, che prende il posto di Michael Dempsey, uscito dalla band per dissapori con Smith. Lasciati per sempre alle spalle i detriti punk che avevano accompagnato gli esordi, i Cure compongono la loro opera suprema, incentrando l’attenzione sulle melodie. Ustionato da un profondo male di vivere Smith analizza con precisione maniacale gli anfratti più nascosti del dolore, riprodotti con angoscia e esemplificati dal basso profondo e lacerante di Gallup.

All’intro strumentale “A reflection” segue l’eccezionale “Play for Today”, dove gli strumenti si fondono in maniera sublime e dove Smith palesa subito la sua ideologia (“It’s not a case of doing what’s right, It’s just a way to feel that matters”). Il nichilismo di Smith, che accompagnerà tutta la loro prima produzione, è splendidamente evidenziato dall’uso delle chitarre e dei sintetizzatori, che aggiungono un tappeto di sensazioni al suono aspro dei lavori precedenti.

“Secrets” è un altro perfetto esempio della nuova maturità raggiunta dal gruppo, pur nella sua giovinezza, “In your house” è sicuramente influenzata dai lavori di Siouxsie, con cui Smith collabora, “Three” e “The final sound” sono altri due brani strumentali, dove tastiere e basso la fanno da padroni, angosciose, tenebrose, cupe, romantiche, vanno ad anticipare il capolavoro assoluto dell’album, “A forest”. Avvolta in uno splendore decadente, tracciata da un semplicissimo giro di basso, la canzone si staglia al di sopra di tutte le altre, forse al di sopra di qualsiasi composizione dei Cure, per la sua linearità, il suo conturbante fascino, il suo emozionante testo (“Suddenly I stop but I know it’s too late, I’m lost in a forest all alone”), il suo ritmo ipnotico e suadente.

In “M” ritorna preponderante la chitarra, “At Night” e “Seventeen Seconds” sono due brani in perfetta armonia tra il vecchio e il nuovo stile-Cure e chiudono un album praticamente perfetto, estrinsecazione ai massimi livelli di quel dark che il gruppo ha in realtà sempre sfiorato, mescolandolo ad altre sonorità, sperimentandolo, elevandosi a padri – insieme ai Joy Division – senza mai riconoscervisi, senza mai estremizzarlo.

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