THE CURE, Boys Don’t Cry (Fiction Records, 1979)

La fine degli anni ’70 segna la nascita di numerosi sottogeneri del rock: il punk, il dark, il metal, il noise. Quanto possano avere valore questi aggettivi è materiale da discussione, certo è che molti gruppi nati in quel periodo sono stati costretti, volenti o nolenti, ad essere etichettati. Così è anche per i primi lavori dei Cure, creatura voluta e cresciuta dal giovanissimo Robert Smith (classe 1959).

Alla sua uscita “Boys Don’t Cry”, come già il precedente “Three Imaginary Boys” viene descritto come un perfetto album di punk-dark. Eppure la sua apertura è data da un bellissimo brano pop, “Boys Don’t Cry” per l’appunto: dov’è allora l’inghippo? La verità è che i Cure sono un gruppo altamente eterogeneo, non inclini a identificarsi troppo in una corrente stilistica. Il gruppo ha ancora una line-up molto classica (chitarra, basso, batteria) e la sfrutta nel migliore dei modi; e se è vero che “Plastic Passion”, “So What” e “Grinding Halt” sembrano pezzi punk ai quali è stato amputato il furore punk, “10.15 Saturday Night” si basa su un incrocio tra poderosi riff chitarristici e semplice rumore, e “Killing an Arab” e “Fire in Cairo” sono brani di rock islamico, con aperture orientaleggianti sorprendenti. E se i testi rimandano spesso immagini di morte, di notti piovose, di ossessioni, di amori struggenti come nel miglior cliché del dark decadente, musicalmente i capolavori sono molti: le già citate “Killing an Arab” – ispirata da “Lo straniero” di Camus – e “Fire in Cairo”; la veloce ballata “Jumping Someone Else’s Train”; la straordinaria “Subway Song”, dove il terrore angoscioso di una donna sola su una banchina della metropolitana viene raccontata con un incedere cupo debitore in parte delle sonorità alla New Orleans, dove basso e armonica la fanno da padroni; fino all’impareggiabile “Three Imaginary Boys”, dove l’universo di Smith viene totalmente alla luce, senza vergogna, come in tutti i migliori brani dei Cure. Un universo cupo, disomogeneo, angosciato ma in profondità atrocemente dolce e disperato, come nell’urlo finale di “Three Imaginary Boys” (“Can You Help Me?”).

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *