U2, Rattle And Hum (Island, 1988)

Si tratta di un album controverso: all’epoca la critica si divise, e fu l’inizio della rottura totale fra il gruppo e i fans della prima ora (completata poi con “Achtung Baby”). E’ per questo un album comunque significativo, un po’ uno spartiacque fra gli U2 degli anni ’80 e quelli dei ’90. “Rattle and Hum”, che fu registrato parte in studio e parte dal vivo durante il tour statunitense di “Joshua Tree”, è soprattutto un viaggio, anzi un pellegrinaggio: come lo era l’album che lo ha preceduto, solo che lì si trattava di un viaggio dell’anima, verso una terra promessa interiore. Qui invece la terra promessa è fin troppo vera, è un’America enorme, una presenza quasi soffocante, stracolma di luoghi sacri al culto di mille santi e santini del pantheon del rock’n’roll. Al cospetto di tanta meraviglia, gli U2 si prodigano nell’omaggiare, riverire, ricordare, celebrare gli eroi del grande Sogno, stando attenti a non dimenticare nessuno. Da un lato ci sono le divinità che come per miracolo si trovano a suonare insieme ai quattro dublinesi: ci sono B.B. King (“When Love Comes To Town”), Bob Dylan (“Love Rescue Me”, “Hawkmoon 269”), Jagger e Richards (non ci sono veramente, ma “Silver And Gold” saltò fuori da una jam session tra Bono e i Gemelli Scintillanti). Dall’altro ci sono i grandi e grandissimi che gli U2 scomodano a vario titolo: i Beatles con “Helter Skelter” (come per dire “anche noi veniamo dal mare per lasciare il segno”); Lennon da solo, a cui è dedicata “God Part II” (piccolo presagio di ciò che verrà); Hendrix, evocato con rito sciamanico all’inizio di “Bullet in the Blue Sky”; ancora Dylan e ancora Hendrix, con “All Along The Watchtower” (fra le tante versioni, questa non è da ricordare); la Billie Holiday di “Angel of Harlem”, e ancora Martin Luther King, in una (emozionante) “Pride” dal vivo… e su tutto aleggia lo spettro di Elvis, patrono supremo del rock’n’roll (come si vede bene nel film-documentario di Phil Joanou). Eppure il viaggio è affascinante, nonostante le frequenti derive retoriche: i quattro ragazzi sembrano veramente inebriati dal vivere nel bel mezzo del sogno del rock, pur con le sue contraddizioni. Anche se il meglio forse viene fuori nelle soste meditative, nella sfuggente “Heartland”, nel crescendo finale di “All I Want Is You”. Ma l’America era poi la terra promessa? Gli U2 potevano ancora fare i profeti, i mistici, con tutti quei dollari in tasca? I don’t believe in riches but you should see where I live… Queste sono le contraddizioni che sovrastano l’album, e che la band risolverà a modo suo con la svolta di “Achtung Baby”.

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